Bartleby Lo Scrivano

di Sara Migliorini

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Un breve racconto, un protagonista enigmatico, una storia difficile da dimenticare.

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Credo che Herman Melville sia universalmente conosciuto come l’autore di “Moby Dick”, al giorno d’oggi capolavoro indiscusso della letteratura americana e, tuttavia, accolto, alla sua uscita, con indifferenza e sospetto. Meno noto, ingiustamente a mio parere, un suo scritto che potremmo definire, a seconda dei punti di vista, un romanzo breve o un racconto lungo, ossia “Bartleby lo scrivano”.

Il sottotitolo del libro, “Una storia di Wall Street”, ci porta immediatamente al centro della narrazione. Siamo all’interno di uno studio legale nella New York di metà Ottocento. La voce narrante è quella dell’avvocato titolare, che ci presenta in maniera ironica i suoi impiegati: Turkey e Pince-Nez, scrivani, entrambi precisi e affidabili, ma a correnti alternate, l’uno solo al mattino e l’altro solo al pomeriggio. Ad essi si affianca un giovanissimo fattorino, Ginger Nut. In un’epoca in cui le fotocopiatrici e le stampanti sono ben lungi dall’essere inventate, lo studio si regge su un meccanismo perfettamente oliato di documenti ricopiati a mano, riprodotti in molteplici esemplari, riletti e ricontrollati da più occhi alla ricerca del minimo errore. In questo microcosmo arriva un nuovo scrivano, il nostro Bartleby, il quale si presenta, in un primo momento, come dipendente modello, con i pregi di Turkey e Pince-Nez, ma senza i loro difetti.

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La vita dell’ufficio si assesta e tutto sembra procedere bene fino a quando Bartleby comincia a opporre un netto rifiuto a eseguire le più banali richieste del datore di lavoro. Dall’effettuare una commissione a ricontrollare un testo la risposta di Bartleby è sempre la stessa: preferirei di no. Non è un rifiuto sgarbato, né supponente o sprezzante, eppure è altrettanto fermo e inamovibile. Identica risposta riceve il datore di lavoro quando chiede al proprio impiegato di spiegargli le ragioni del suo comportamento: preferirei di no. In un vertiginoso climax la vicenda di Bartleby diventa sempre più difficile da gestire. Se, in un primo momento, un po’ per quieto vivere, un po’ per compassione, si passa sopra l’eccentricità dello scrivano, si arriva a un punto in cui l’unica attività di Bartleby è quella di rimanere immobile alla scrivania a contemplare un muro di mattoni di fronte alla finestra dell’ufficio. Lascio a voi scoprire come si concluderà la vicenda di Bartleby, pur anticipandovi che, a lettura ultimata, non è detto che voi riusciate a scoprire cosa si nasconde dietro quel “preferirei di no”.

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Tanto è semplice la trama di questo racconto e impeccabile lo stile con cui è narrato quanto spiazzante l’agire del suo protagonista. Non è un caso che l’eccellente edizione della Feltrinelli riporti, oltre al racconto, un amplio e accurato apparato critico in cui si avvicendano, dal 1928 al 1990, tutte le interpretazioni e le ipotesi che i critici hanno formulato e avanzato sulla figura di Bartleby. Cosa si cela davvero dietro quella frase apparentemente così remissiva come “preferirei di no”? Bartleby è rimasto imprigionato dal male di vivere o, al contrario, in un atto estremo di coraggio e di autoaffermazione, ha deciso di riappropriarsi  della propria vita opponendosi alle richieste del mondo? Noi stessi constatiamo spesso quanto sia difficile opporre dei rifiuti. Dire sì è più comodo, meno rischioso, non necessariamente più vantaggioso, ma di sicuro più semplice: non si innescano conflitti, non si sollevano recriminazioni. Dire no, come fa Bartleby, spaventa, si chiudono porte, ci si nega opportunità, si scelgono strade più complicate. Forse è anche per questo che, chiuso il libro, la figura di Bartleby continua a tornare alla mente, ci spinge a porci domande e a trovare ogni volta nuove risposte. Che, poi, è il potere e il dono più grande della letteratura, non darci risposte certe, ma nutrire dubbi e farci percorrere strade inesplorate.

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Ringrazio i lettori per i loro commenti all’articolo precedente

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Foto: Sara Migliorini

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Il Bradipo Legge ritorna mercoledì 28 giugno

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6 Comments

  1. Guido Reply

    Bartleby ha certamente un gran coraggio. Come racconta Sara e’ decisamente meglio dire un si per il quieto vivere che un no che movimenterebbe dei veri e propri cicloni. Ma a volte il no e’ anche la propria ragione a non sottomettersi… A parole e’ facile da dire ma nella realta’ e’ decisamente difficile. In ogni caso W BARTLEBY! Coraggioso.

  2. Enea Solinas Reply

    Bartleby è quasi un archetipo.
    Il suo rimando più affine nelle tradizioni della Philosophia Perennis è quella del rinunciante.
    Colui che da sapiente si sacrifica, rinunciando al sacrificio. Il solitario, l’individuo, il guru, il selvaggio, l’introverso sono tutte variabili di una caratteristica che li accomuna ad una radice remota. Il ritualista che si sottrae al rito del sacrificio per indagare e apprendere in una dimensione esoterica, contemplativa e di sublimazione e distacco. Samniasyn è la imperfetta translitterazione del termine sanscrito.
    Un ardente pacato lontano migliaia di anni luce eppure per alcuni versi altresì analogo allo zoon politikon di Aristotele… Anche se in questo caso le precondizioni sociali determinavano la possibilità di sentirsi e agire come tale. L’occidente resta pur sempre incline alla divisione e alla separazione, e alla conseguente dualità.
    Riferimenti ulteriori a Bartleby come esempio per chiarire altri personaggi storici o atteggiamenti, sono rintracciabili nel saggio su Robert Walser incluso ne i 49 gradini di Roberto Calasso e in “Io sono – studi e pratiche di terapia della coscienza” di Giuseppe Genna.
    Consigliatissimi anche per riconsiderare il proprio agire e sentire nella società contemporanea, che è piena di sacrifici latenti e non consapevoli, cioè che non iniziano da un desiderio chiaro e distinto, da una scelta precisa e decisiva.
    Come è appunto quella ripetuta come un mantra da Bartleby e immersa in una nube di mistero: “preferisco di no”.
    Ciò che sembra un sottrarsi è apertura a un sogno non comprensibile ad altri se non a sé stessi.
    Questo è l’individuo imperfetto e cosciente e presente a sé stesso.
    Senza arrivare agli estremi di una tale pratica ascetica, nelle declinazioni del tantrismo o del buddismo esoterico.
    Dubito anche che il suo sia coraggio. Non è ardimento o voglia di fare l’impresa eroica. È una condizione esistenziale sostenuta con massima coerenza. È ardore devozionale, se mai.
    Ma questa è solo una mia interpretazione, non scevra dall’influenza che mi imprimono gli altri testi che ho citato.

    Buona vita a tutti!

  3. Teresa Reply

    Davvero curioso il racconto a quanto pare. Sorprende come l’arguzia e la sottigliezza degli scrittori passati riuscisse a creare spunti letterari di interesse con poco , mentre ora fatico a trovare tra le mille proposte di Netflix un intrattenimento la cui trama susciti la mia curiosità.

  4. Maria Beatrice Anania Reply

    Io vorrei complimentarmi con Sara, poiché ognuno di noi può leggere nella risposta “preferirei di no”ciò che meglio crede.
    Ti ringrazio Sarà perché non conoscevo questo libro. Hai saputo descrivere ampliamente la trama, le vicende e farci catapultare nell’epoca descritta.
    Complimenti ancora.

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