Possibilità

di Enea Solinas

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Insieme a rotture… le crisi mettono in luce possibilità

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Dalle crepe entra la luce, afferma un verso di una celebre canzone dalla forte ispirazione poetica. Scusate se la cito in modo imperfetto e prosaico. L’essenziale è che le cronache del dopovirus siano intese come una riflessioni sul durantevirus. Cioè sul tempo presente, cercando di intravedere e accorgersi di alcuni aspetti positivi. La pandemia non è finita, anche se la sua gravità ed estensione è stata ridimensionata da molteplici fattori. Primo fra tutti la cautela e l’accortezza di prendere meno alla lettera le letture scientifico-statistiche come dato determinante, ma di osservarle con più distacco e un po’ di sospetto, come se ci si trovasse di fronte ad un fenomeno più imprevedibile ed incerto delle previsioni meteo. Perché quest’epoca è stata anche quella di nuovi narcisismi e di pervasività mediatica che lavora sul piano più istantaneo o superficiale dell’emotività.

Questo però ha riportato come necessario il bisogno e la possibilità di trovare degli spazi di transitoria solitudine quali luoghi o momenti per staccarsi dal flusso di input e di informazioni che a vario livello caratterizzano la contemporaneità.

Questo flusso digitale a richiamato alla piacevolezza dello stare insieme dal vivo, in presenza, oltre che alla sua necessità per limitare la socialità irreale, non empatica, priva cioè non di identificazione e immedesimazione nel sentire altrui (non è questa l’empatia), ma di un ascolto profondo che coinvolge tutto il corpo e consente di accogliere e distaccarsi da ciò che l’esprimersi (di opinioni come di emozioni) dell’Altro ci attraversa e fa risuonare in noi. Senza precipitarsi in interpretazioni o spiegazioni o comprensioni univoche.  

Di questa pratica ed esercizio dell’empatia non ne ero pienamente consapevole, e generalmente mi suscita una certa inquietudine. Ovviamente l’ho sempre vissuta, come tutti, del resto. Ma via via in modo più consapevole. E certamente sono andato fuori registro anche a causa dell’isolamento e dell’incorporeità delle relazioni distanziate e a distanza. Per inquietudine non intendo uno stato d’animo impaurito. Intendo la duplicità di stare nella situazione e l’incontenibilità o se volete la necessità di correre (sì avete letto bene cari bradipi) col flusso di emozioni e pensieri. Correre che vuol dire anche se non soprattutto lasciar correre (e scorrere). Così come l’essere consapevoli che essere implicati in una compresenza, attiva questo flusso inquieto – sottilmente mormorante – al di là della mia volontà. È un mio modo di essere e lo accetto, senza vederne un pregio o un difetto. Sempre meglio, so che sono fatto così. E salvo rare eccezioni e o situazioni transitorie diverse, più acquietanti, questo accade puntualmente.

Tale empatia la vivo e rivivo anche grazie alla condizioni che la pandemia ha fatto riemergere come desideri e bisogni più comunemente sentiti. Da un lato il ritagliarsi del tempo e dello spazio per sé, dall’altro condividere con gli altri un tempo di buona qualità non logorato dalle altre qualità di tempo che la vita ci offre o ci consegna (ii ritmi lavorativi o scolastici, i rapporti convenzionali, o nei momenti di difficoltà e dolore il tempo rallentato del raccoglimento e del silenzio). Di un certo tipo di silenzio.

La pandemia ha evidenziato il coesistere e il verificarsi di diversi tipi di silenzio. Eloquenti, ma in diverso modo.

L’infodemia in una reazione da horror vacui ha distratto, infastidito, e fatto rimbombare l’angoscia in rivoli frammentati e frammentari delle tante incertezze del presente. Ma non sono tanto i silenzi quanto il rendersi conto della nostra capacità istintiva di recepirli e talvolta – magari confusamente – di distinguerne le voci. Perdonate l’ossimoro. Il che, ci fa sentire fragili. Distanziamento sociale, regolamenti, in-governabilità del fenomeno ci ha costretto a capacità riadattative che i più ottimisti chiamano resilienza. Forse a volte bisognerebbe semplicemente considerare la nostra interdipendenza con l’ambiante (anche sociale) e il fatto che mutando noi la cambiamo come ci cambia essa stessa. Di questo principio di indeterminatezza non sono l’unico a scorgere analogie tra questo modo di essere coscienti e alcune teorie e principi della fisica quantistica. Fritjof Capra fu uno dei primi. Ma la consapevolezza è arcaica, risale, diversamente enunciata tanto nei testi vedici, quanto nei paradossi taoisti, quanto, per venire più vicino a noi, nei testi gnostici e in alcune tradizioni antiche e pre-classiche. Una liberazione che scioglie, svincola, e richiede attenzione alla continuum attraverso le discontinuità. Questi risvegli accadono per lo più nel percepire e cogliere il senso profondo di certi istanti che riecheggiano significati plurimi e radicali.  

Una consapevolezza e prospettiva che ci fa amico l’ignoto, e ci regala un presente antico e fantascientifico insieme. Ma forse questa è la mia immaginazione, condizionata da abitudini, e da un immaginario preferenziale. 

Ma lascio aperto il gioco: ciascuno libero di scrivere nei commenti un’idea che illumini il presente di qualcosa di sentito quanto mai più attuale e al tempo stesso tradizionale. Un aneddoto, una metafora, un’immagine evocativa, un libero pensiero. A voi la parola!

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Foto: Enea Solinas

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Cronache Del Dopo Virus ritorna lunedì 21 novembre

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