Indjira, Il Pane Che Vive Nel Tempo

di Rino Sciaraffa

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In Etiopia, fra il gusto ed il profumo dell’alimento primordiale per l’essere umano, fra il tempo e la fatica, nel passato e nel presente.

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Lasciamo il Kenya, le sue baraccopoli e viaggiamo verso nord, seguendo la linea orientale dell’Africa dirigendoci verso i luoghi che hanno visto nascere e diffondersi, così sembra per biologi, storici ed antropologi, l’homo habilis, l’homo erectus e poi il sapiens. Il lago Turkana, tra Kenya ed Etiopia è il crocevia di questa migrazione nel quale abbiamo ha cominciato a vagare negli altri Continenti, per cercare una casa, e nuovi luoghi dove abitare. Negli altopiani etiopici sono stati rinvenuti i più antichi resti umani ed i loro manufatti. La mano con le sue articolazioni, i pollici opponibili, la sua mobilità ha prodotto e plasmato il mondo circostante creando prima il pane, poi le armi e poi gli ornamenti. Tutta la storia umana viaggia su queste tre linee costanti: la sopravvivenza, la violenza, la distinzione di classe con la costruzione di oggetti/emblemi di potere ed insieme ad esso, il concetto di bello, di infinito, l’astratto ed il simbolico. In Etiopia ripercorriamo il primo lavoro umano, la produzione di pane, il primo alimento che l’uomo non ha dovuto né raccogliere e né cacciare, ma che ha creato assimilando elementi diversi ed utilizzando, per la prima volta nella sua storia, la tecnica.

Siamo nella storia, in quella più remota, anzi nella preistoria, dove lo spartiacque fra questi due periodi è determinato da altra azione della mano umana e dalla tecnica, la scrittura. Non sappiamo bene dove, né come, ma ad un certo punto l’uomo o meglio, molto probabilmente una donna, ha preso delle spighe di un cereale, le ha frantumante per ingerirle più facilmente e poi, per una sconosciuta coincidenza od intuizione, ha cominciato a mischiare la farina con acqua, provando e riprovando chissà quante decine di volte, per rendere questa combinazione di elementi una amalgama semi solida. Il “miracolo” del solido e del liquido, opposti fra loro, due condizioni dei tre stadi della fisica, diviene pane, alimento iniziatico del primo sapere a contatto con la prima scoperta umana, il fuoco. Tutto questo ripercorrere il passato ci porta ad una genesi del genere umano, non in senso archetipico, ma evolutivo. Il pane ci ha fatti fermare in uno spazio delimitato, ci ha permesso di coltivare il suolo, di creare i primi agglomerati umani atti a difendere il terreno della semina e la terra, in senso fisico, è diventata la fonte della sopravvivenza, non attraverso i suoi frutti, ma per mezzo del lavoro. Il pane ha una sua origine dall’uomo ed è generatore del suo lavoro, quasi a simboleggiare un fiorire di ogni nostro processo antropologico. Ancora oggi, nel linguaggio comune, per definire il lavoro, si dice: “mi guadagno il pane”.

Nei primi passaggi del racconto biblico di Genesi, l’uomo era solo raccoglitore, tranne di un unico albero del quale non si sarebbe mai dovuto cibare; poi la “maledizione” lo costringe a dover pensare al lavoro fisico per produrre il proprio cibo. La ricerca della sapienza divina è diventata il male, la sapienza umana è diventata strumento di sopravvivenza o ricerca di una specie di auto redenzione.

Qui nell’altopiano etiopico, a ridosso del grande lago, siamo in spazi aperti dove gli agglomerati umani sono meno soffocanti di una baraccopoli. Non c’è lo smog, gli odori pesanti da respirare, l’assenza di ogni rumore assordante, tutto avvolto negli spazi più aperti, nell’aria con i suoi contorni naturali e non antropici. C’è il silenzio interrotto dal cadenzato di gesti antichissimi, come quello di produrre il pane, o meglio la Indjira. Deriva dal Teff, un cereale autoctono, antichissimo, scuro e dalla spiga allungata e sottile. Il suo nome deriva dalla radice fonetica riconducibile a T’FF, che nella lingua locale, l’amarico, significa perduto. Un seme così piccolo, che si perde mentre lo si semina fra le zolle di terra appena bagnata dalla pioggia, ma che sa rinascere nella stagione tardo primaverile. Questo seme così minuscolo e così prezioso ha prodotto la prima forma di pane, prima che altri cereali entrassero nella storia umana e che il lievito lo trasformasse ulteriormente in tanti altri alimenti o bevande come la birra, il più antico prodotto fermentato nella storia umana. Quello che vedo in Etiopia è il presente ed il passato combinati insieme. Un cilindro di pietra nel quale un mortaio di legno a cadenza ritmata, ripercorre simbolicamente una musica ancestrale e produce una farina grezza. Le mani femminili che lavorano hanno la forza del tempo, in azioni ripercorse da generazioni, non per anni o decenni, ma da millenni. Il fuoco preparato su un braciere, acceso dentro un cerchio di pietre, simboleggia la forza dell’uomo che domina questa forza primordiale attraverso l’essenza stessa del tempo, i sassi. Il fuoco dominato dal soffio di una bocca d’uomo, con il viso solcato dalla fatica e dal tempo è in contrasto con quel fuoco, prerogativa degli Dei, che invece viene gestito con sapienza dalla fragilità umana.

Altre mani si affaccendano nella preparazione di questo impasto di acqua e farina, mani che danno il senso di un passaggio generazionale, mani sempre di donne, mani adolescenti e di madri, mani che istruiscono e mani che apprendono, mani che segnano, attraverso questo lavoro antichissimo, il passaggio del tempo. Ed infine la Indjira, dalla forma grande e circolare, che si dice essere lo specchio del Sole perché sostenitore di vita sulla terra. Questo pane così diverso da come lo conosco io nella forma e nel sapore, leggermente acidulo, scuro e che non si sbriciola frazionandolo ma che si deve strappare in due per dividerlo. Un pane che serve a contenere altri cibi cotti o a raccogliere ortaggi e piccoli pezzi di carne mischiati insieme nel piatto che ti viene offerto. Le mani che mi presentano il cibo sono mani maschili, non quelle femminili che lo hanno prodotto, quasi a ristabilire una patriarcalità che non deve essere mai alterata, segno di un tempo per me antico, giustamente superano nella mia cultura. Questo pane così caldo nelle mani, leggermente amaro, che diventa al tempo stesso alimento e posata, mi fa percepire una dimenticata famigliarità del tatto con il gusto, confidenzialità che tutti hanno tutti i bambini in età di svezzamento, nel quale il cibo è prima “assaggiato” con il tatto e poi gustato con la bocca.  In questo ricordo cado nel paradosso di un tempo che sembra non scorrere da millenni, un tempo che rimane immobile nel suo fluire incessante. Pane millenario eppure sempre nuovo, pane che scavalca il tempo, pane che è contatto simbolico con il divino in molte liturgie religiose, pane che è esso stesso teogonia, pane che diventa peccato sprecarlo o gettarlo, emblema di un vituperio che non dobbiamo mai fare verso gli altri uomini e né verso il Creato. Questo pane che è fatica di uomini e donne insieme in una sorta di unione mistica fra procreazione di vita e conservazione della stessa. Pane che Lucio Dalla, nella sua canzone Cosa sarà diceva di poter “…fermare un poeta ubriaco a dare la morte per un pezzo di pane …”.

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Foto: pinterest.it

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Il Mondo In Parole Povere ritorna martedì 10 gennaio

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12 Comments

  1. Rossana Zanetti Reply

    Che dire? Ogni volta è un viaggio partecipato. Leggere questi racconti ti porta su luoghi che forse, nella tua vita, non vedrai mai ma in quel momento, mentre stai leggendo, sei lì, stai camminando con chi ha vissuto questa esperienza. Sembra di viverla sulla tua pelle. Grazie. Infinitamente grazie.

  2. Roby Reply

    Sono d’accordo con Rossana, che mi ha tolto le parole di bocca.

    Una lettura che diventa viaggio e che lascia aria pulita a chi legge, non solo per fare esercizio di memoria ma per permettergli di respirare colori, profumi e gestualità di altre terre.

    Tutti dettagli che rievocano immagini nelle quali ritrovo mani e volti a me conosciuti, di un tempo in cui il pane non si buttava, aveva una sua sacralità che riassumeva il senso dello stare insieme, dell’essere famiglia, del condividere e del condividersi.

    Grazie Rino, scrivi davvero bene.
    La cosa che apprezzo tantissimo, al di là della tua profondità, é l’attenzione che hai nei confronti delle cose e delle persone di cui parli e in quelli di chi ti legge.

  3. Rino Sciaraffa Reply

    Grazie Roby per il tuo commento.
    Si, nello scrivere cerco di dare uno sguardo alle cose, non solo nel descriverle. Grazie davvero per il tuo bellissimo commento.
    Un caro abbraccio.

  4. Silvano Garau Reply

    Grazie Rino, pace nel nostro Signore. Grazie per tutte queste informazioni sui diversi paesi Africani: loro gioie, loro dolori dai quali possiamo apprendere grandi insegnamenti di vita. Grazie🌹Silvano

  5. Rita Macrì Reply

    “Un seme così piccolo, che si perde mentre lo si semina fra le zolle di terra appena bagnata dalla pioggia, ma che sa rinascere nella stagione tardo primaverile.” Una bellissima immagine che mi ricorda la fede, così “piccola” tanto da quasi non vederla eppure piena di vita dentro di se! Grazie caro Rino

  6. Franca Reply

    Le tue parole mi hanno fatto vedere paesaggi, volti, gesti, odori e sapori. Riconosco la gestualità antica di chi in quei semi ha da sempre sperato per un raccolto che avrebbe permesso di sfamarsi. Spezzare il pane con le mani una persona a me molto cara, diceva che era un segno di rispetto per il cibo per eccellenza. Grazie Rino

    1. Rino Sciaraffa Reply

      Grazie Franca! In effetti i gesti a cui tu fai menzione sono memoria in noi e memoria (oserei dire) ancestrale.

  7. Mario D’Angelo Reply

    Il potere evocativo delle parole… ti fanno sorvolare un territorio, conoscere persone, assaggiare un pane mai mangiato prima… Grazie, è stato un gran bel viaggio!

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