Parliamo Di Carcere

di Giuseppe Rissone

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Parlare e dibattere sul carcere, un tabù da superare

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Parlare e riflettere sul carcere non deve essere un tabù, è necessario andare oltre ai fatti che la cronaca ci propone, perchè il rischio – dopo il gran clamore mediatico iniziale – è di veder scomparire il tema e di tornare nell’oblio e/o di abbandonare qualsiasi seria riflessione. Leggendo articoli su settimanali, quotidiani, e su qualche sito, ho trovato qualcosa d’interessante, se volete anche provocatorio, sull’argomento, così vi propongo due letture:

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La prima è un articolo apparso sul settimanale Riforma lo scorso 22 lulgio, a firma di Roberto Davide Papini, con un’intervista a Elisabetta Zamparutti dell’associazione Nessuno Tocchi Caino

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«Il carcere è inutile, abolirlo non è utopia»

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«Un aggettivo per definire il carcere? «Inutile. È un’istituzione inutile e va superata». Elisabetta Zamparutti non ha dubbi, il carcere va abolito. D’altronde, su questo tema il dibattito va avanti da tempo, prima sommessamente, poi in maniera sempre più larga (seppur minoritaria) come dimostra la nuova edizione del libro Abolire il carcere di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta con prefazione di Gherardo Colombo e postfazione di Gustavo Zagrebelsky. Da parte sua, Zamparutti conosce molto bene la realtà carceraria in Italia e non solo. È componente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura per conto dell’Italia, oltre che tesoriera di “Nessuno tocchi Caino” e consigliera generale del Partito radicale transnazionale.

– L’abolizione del carcere viene vista da molti come una cosa assurda e invece…?

«È un progetto politico che promuove un cambio di paradigma nella concezione della giustizia del modo di dire e di fare giustizia. Come diceva Gustav Radbruch (poi ripreso da Aldo Moro), “più che cercare un diritto penale migliore dobbiamo cercare qualcosa di meglio del diritto penale”».

– Cambiare, ma in che senso?

«Mettere in discussione il giudicare, in fondo richiamandosi anche al monito biblico sul “non giudicare”, perché occorre trovare forme di giustizia diverse che più che giudicare, condannare, separare, mettere in disparte siano orientate alla riparazione. Certo si deve partire dalla verità, dalla consapevolezza del danno procurato. Più che il sistema del giudizio va concepita una forma di acquisizione della verità che porti a una riparazione. Il carcere è l’espressione più crudele, ovunque ci siano istituti penitenziari, per quanto possano essere evoluti, comunque c’è una componente punitiva prevalente che pregiudica il suo uso a fini rieducativi, nonostante quello che abbiamo scritto nella Costituzione. L’impianto è quello di una giustizia portata a infliggere altro male rispetto al male commesso. Non c’è educazione che possa venire dalla punizione. Il cambio di paradigma deve essere da un pensiero violento a un pensiero nonviolento. Coltivando una concezione nonviolenta il carcere va superato».

– Così però viene meno il concetto di punizione? O va bilanciato con l’intento rieducativo e riparativo?

«Il concetto di punizione va eliminato, occorre proprio un’altra concezione che metta al centro l’educazione, la riparazione e il cambiamento della persona. Servono forme di giustizia riparativa. Vanno pensate forme di acquisizione della consapevolezza del danno procurato, per passare a un’evoluzione della coscienza che ti porta a riparare. Questo comporta che tutta la società deve cambiare evolvendo verso forme più civili. Non è che il carcere sia una parte a sé stante, è un’idea di insieme e il carcere fa parte di una società che pensa e agisce in questo modo violento».

– Questo presuppone una grande fiducia nell’essere umano e nella sua capacità di cambiare.

«Esattamente, occorre una grande fiducia e un grande amore per l’essere umano. Sa chi non ha fiducia nelle persone?».

– Chi?

«I regimi totalitari, quelli illiberali che partono da una sfiducia nell’essere umano e quindi gli negano i suoi diritti».

– Certo, così uno si immagina che domani vengano aperte le porte di Regina Coeli, dell’Ucciardone e di San Vittore e comprensibilmente si preoccupa…

«Non siamo dei pazzi furiosi. Delle strutture di contenimento ci devono essere, ci sono situazioni in cui qualcuno è dannoso a sé stesso e agli altri agli altri e lo devi fermare. Quello che non ci deve essere è il preminente ruolo della punizione. Direi il carcere come eccezione e non come regola, non come punizione ma come contenimento. D’altronde, ci sono situazioni in cui ci si rende conto che il diritto penale viene usato per regolamentare problemi sociali, in carcere c’è una grande manifestazione di disagi sociali».

– Come “Nessuno Tocchi Caino” avete scelto di aggiungere al nome un altra frase biblica, quella dell’apostolo Paolo «Spes contra Spem» («sperando contro speranza» – Romani 4, 18). Una frase sulla quale il leader radicale Marco Pannella ha sempre insistito molto. Che cosa significa per voi?

«Vede, “Nessuno Tocchi Caino” vale sempre più per lo Stato affinché per difendere le giuste ragioni di Abele non diventi esso stesso Caino. Invece “Spes contra spem” è rivolta ai detenuti perché siano loro, con il loro comportamento e cambiamento, a determinare il cambiamento che vogliono vedere rispetto alla loro situazione. Devono essere loro speranza».

– Resta il fatto che l’abolizione del carcere per molti è un’utopia

«Parlare di utopia spesso è anche una buona giustificazione a non fare. Di fronte alla violenza, pervasiva e diffusa, solo un pensiero nonviolento può mutare le cose. Quando la speranza non c’è negli altri devi essere tu speranza. Se noi siamo arrivati a superare l’ergastolo ostativo attraverso i pronunciamenti delle alte giurisdizioni (Corte Europea di Giustizia e la nostra Corte costituzionale) è perché ci sono stati ergastolani ostativi che hanno saputo essere loro speranza. Hanno manifestato un cambiamento più forte dell’ergastolo ostativo stesso».

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La seconda è la recensione del film Grazie ragazzi di Riccardo Milani apparsa sul sito Pressenza a firma di Bruna Alasia, interpretato tra gli altri da Antonio Albanese e Fabrizio Bentivoglio, uscito lo scorso 12 gennaio.

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“Grazie ragazzi!”, un film sul diritto alla vita creativa dei detenuti e non solo

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“Grazie ragazzi!”, il nuovo film di Riccardo Milani sul carcere e i mezzi del suo recupero sociale, è ispirato al francese Un triomphe, a sua volta basato sulla storia vera di Jan Jonson, avvenuta in Svezia a metà degli anni ’80. Rispetto alla pellicola originale, adattata in versione italiana da Milani con Michele Astori, il regista dice di aver cambiato il finale per renderlo “più popolare e più italiano”, più vicino alle sue concezioni.

“Soffro per il mio Paese in cui il senso di giustizia è schiacciato da un decennio – ha detto in conferenza stampa Riccardo Milani. “Volevo mostrare cinque persone che tentano una strada alternativa, un riscatto, anche per sottolineare che è necessaria la certezza della pena”. Come sempre nei film di Milani, il messaggio etico è forte, benché veicolato in maniera leggera attraverso lo stile della commedia popolare. Non a caso il sodalizio Milani-Albanese è andato consolidandosi negli anni. “Grazie ragazzi!” è una storia che, attraverso la figura di cinque detenuti e del loro insegnante di teatro interpretato efficacemente da Antonio Albanese, pone l’accento sull’importanza del diritto di ogni uomo alla propria realizzazione e sulla necessità della cultura quale antidoto efficace alla distruttività umana. In sintesi il film ricorda come educare alla creatività significhi educare alla vita, un concetto sostenuto da Erich Fromm.

“Grazie ragazzi!” racconta di un certo Antonio Cerami (Antonio Albanese), un uomo di mezza età che avrebbe voluto fare l’attore, ma ora, separato dalla moglie e solo, sopravvive come doppiatore di film porno per riuscire a pagare l’affitto di un monolocale in una delle periferie fuori Roma, disturbata dallo sferragliare della vicina ferrovia. Un giorno un suo vecchio amico (Fabrizio Bentivoglio), impresario teatrale, gli offre un piccolo lavoro come regista di uno spettacolo in un penitenziario e, date le difficoltà di realizzazione, lui è titubante. “Aspetto l’ora d’aria, aspetto di mangiare, aspetto i colloqui, aspetto che venga sera, che venga giorno”: così raccontano la loro esistenza i detenuti al regista il quale, appena entrato, non può far altro che pensare di trasformarli in attori mettendo in scena un testo universale: “Aspettando Godot”.

Sarà un faticoso eppur travolgente tentativo di crescita e riappropriazione della propria dignità, non solo per i carcerati, ma anche per il loro formatore. Il film dimostra – e lo provano i molti esperimenti realmente fatti – che anche le persone più difficili possono essere recuperate se impegnate in un’attività gratificante. “Grazie ragazzi!” argomenta tale concetto nello stile della parabola, senza tacerne le difficoltà attraverso un finale spiazzante, vero e non cinematografico. E tuttavia, pur rimandando alla complessità del vivere e ai fallimenti che ne derivano, lascia un’impronta di speranza.

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Questi sono solo due esempi, l’invito che vi rivolgo – se l’argomento suscita il vostro interesse – e di approfondire le vostre conoscenze, di rendersi conto che aprire una porta sulle carceri – e non solo in senso figurato – può essere utile a tutta la società.

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Foto: pressenza.it

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La Bradipo Notiziaritorna domenica 22 gennaio

POLI

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