A Pensare Bene, Alle Volte Ci Si Prende

In queste giornate particolari, che stanno comportando diversi cambiamenti nel nostro vivere quotidiano, il nostro redattore Umberto Scopa, ha voluto condividere alcuni suoi pensieri. Salutiamo e inviamo un forte abbraccio ai nostri redattori e lettori che si trovano nelle cosiddette “rosse”, inoltre, ci siamo visti anche costretti a rinviare la festa in programma sabato 21 marzo a Chiavari.


Invio a voi tutti questi pensieri semplicemente come una persona che al pari di ogni altra è preoccupata dall’emergenza. Credo che un po’ tutti brancoliamo nel buio e io vorrei cercare di intravedere qualche spiraglio nella cortina di mestizia che si percepisce in giro.
Ricordo il terremoto del 2012, lo ricordiamo tutti noi, Emiliani e Lombardi soprattutto. Si tratta grossomodo delle stesse zone oggi maggiormente soggette a questa nuova, differente, disavventura. Il terremoto ci ha segnato, profondamente, ci ha scosso fuori e dentro, però ha sortito anche l’effetto di avvicinare le persone, solidali nel comune avverso destino. Non così per il virus che aleggia attorno a noi, dove non sappiamo e genera timore e diffidenza verso il prossimo. La cura che ci hanno prescritto in fondo è una medicina non troppo moderna che ha due principi attivi, o poco attivi: adottare l’inerzia e la distanza. In realtà solo l’autodisciplina può rendere efficaci queste protezioni. Poco serve la legge. Non è la paura della legge, ma solo quella del male, che ci può indurre ad una rigorosa autodisciplina. Si farebbe volentieri a meno di queste cure ma non si può. E allora, mi chiedo se davvero non si può fare di questa necessità anche una virtù. Rallentare i nostri ritmi esistenziali potrebbe aprirci una visione diversa su uno stile di vita differente, disintossicato dalla frenesia e dalla velocità. Non è facile subito, ma forse si può. So bene che pagheremo un prezzo economico pesante, ma a questo punto lo pagheremmo comunque, non c’è modo di evitarlo. E poi la seconda cura, quell’odiosa distanza tra gli individui. Un metro dicono. Magari sbaglio, ma la mia impressione è che già da prima del virus la nostra abituale distanza dal prossimo, non quella fisica intendo, era già ben superiore a un metro. Parlo della distanza che abbiamo steso tra noi e la comprensione degli altri. E allora perché non pensare allora che la distanza fisica oggi imposta dalla necessità possa servire per indurci a ripensare quell’altra distanza, quella psicologica, che nessun virus può imporci, ma ci siamo autoimposti noi. Ricordo poi il titolo di un bel film, si chiamava “La giusta distanza”. Non parlava di virus, tutt’altro, ma proponeva l’idea che la distanza da ciò che osserviamo può restituircene una visione meno emotiva e coinvolta, quindi più lucida. Perché quando siamo dentro la mischia, nel corpo a corpo dell’arena, diventiamo sempre più schierati e meno ragionevoli. Neppure mi aspetto che la politica lo capisca, è schiava dell’arena, non se ne affranca neppure di fronte all’emergenza che stiamo vivendo ed è da compatire. Ma noi forse ancora non lo siamo; vorrei pensare bene, che a volte ci si prende.
Poi un pensiero al dopo. Tutto passerà, il nostro sistema di vita sarà ripristinato, perché a questo miriamo. Ma mi chiedo se non stiamo mirando proprio a ricostituire quelle condizioni che con il loro impatto ambientale hanno causato il problema. Mi chiedo se peggio del virus non sia l’avere ormai anticorpi contro l’insegnamento che dovrebbe darci. Cioè che quella normalità della quale oggi ci sentiamo defraudati è la vera colpevole di tutto.

UMBERTO SCOPA

Foto: Giuseppe Rissone – ilgiornale.it

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