Mietiture

di Enea Solinas pixabay.com


Quel che la recisione lascia, e ciò che conserva: frammenti e opere in corso

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Avrei voluto o potuto scrivere lavori incorso. Ma per ragioni che oso definire devozionali, preferisco chiamarle opere. Atti, gesti, atteggiamenti, volontà. tutto un sentire in movimento – inquieto eppur stabile, ancorato a ciò che rimane, si rimembra e ricorda. La Morte come simbolo, oltre che come fatto luttuoso e doloroso per chi perde una persona cara, o chi prova compassione per le vittime e i caduti di ogni ingiustizia e ferocia.

La carta degli Arcani maggiori illustra il passaggio: pezzi che vengono seminati non trascurati si depositano. Come ciò che capita e ci capita. Che lascia traccia, segno, ma viene anche smembrato e ridotto e insieme fertile di frammenti. 

La cultura è un atteggiamento contadino. È comprendere senza pretendere che non appartiene a nessuno ma è tra le persone, come legame e sentimenti. E non è sempre buona o bendisposta. Perché l’atto, il gesto prevede una torsione, una perversione, un’oscillazione del corpo, della spina dorsale. Il colpo dev’essere deciso, e decisivo. La fascina si raccoglie dopo molte ripetizioni. Si accumula un peso e se lo si carica in spalle. Quanto più si è mietuto, tanto più grave (e gravido) sarà il peso della fascina di grano.

C’è una crisi alimentare, provocata dalla crisi bellica e diplomatica. Lo stallo in corso… la non volontà di procedere con delle trattative, il lucrare sull’attesa, è tutta un’arte della guerra dove vittime di uno stesso meccanismo si contrappongono. Come nell’Iliade, gli déi parteggiano e godono dell’assurdità dei semidei, gli eroi – di cui il poema induce a diffidare – che vorrebbero morire nella bella luce.

Come a giugno sui campi, sotto il sole solstiziale. feriti o mietuti dal contagio delle frecce avvelenate del suscettibile dio Febo. Per ripicca, gelosia, bisticcio di parole. Briseide dalle “belle gote” aveva lo stesso identico appellativo di Criseide “dalle belle gote”. Una sillaba che segna e rimarca la differenza. L’occidente non si è più gloriato di un tale fondamento. Però il fondamento rimane. Quando tutto si riduce a questione di grano (inteso merce, economia, denaro liquido o virtuale) allora ogni differenza sostanziale o animica viene a essere alienata. Tutto si appiattisce e diventa punto di scambio commerciale. Transazione di ogni cosa. C’è forse una tassa sul respiro. No, è più semplicemente ansia, lo stato d’animo che caratterizza lo stare al mondo. Desiderio, aspettativa, inquietudine.

Ai suoi opposti – e complementari: stagnazione, inerzia (letteralmente: pornografia). Godimento o a perversamente, sofferenza che si autoalimenta. Inconsistenza, vaneggiamento – e vanità.

Occorre sentire e sentirsi vivi. Riconnettersi con la presenza, ed e-muovere, emozionarci, spinti non da pulsioni che ci agiscono, come se fossimo soggetti insenzienti, ma piuttosto accogliendo tutto ciò che non comprendiamo come incomprensione.

C’è un’altra sapienza contadina, che coltiva stelle, desideri. E miete con lo sguardo, che tiene presente l’insieme dei particolari e la totalità che sfugge. Alcuni lo chiamano dominio di sé, e una certa vocazione imperialistica lo fa il motto del buon condottiero, alfiere di ogni vittoria.

Festina lente – motto di Augusto – un altro primogenitore estivo, cui è dedicato il mese di agosto – ha una verità esoterica più sottile: tutto capita nell’immediato, improvvisamente. Anzi, rapinosamente. Con lentezza e psichizzando (animandoci e animando) il vivere nel corso del tempo, qualcosa comprendiamo.

Ma come ciò che resta della mietitura, sono parti, frammenti, pezzi di una nostra crisi, faglia che sempre ci scuote e separa, de-stabilizzandoci come un terremoto.

È un movimento ed una simbologia della terra. Nei suoi elementi fertile e produttivi, così come negli aspetti terrifici e tremendi (eppur meravigliosi, poiché ci rammentano la nostra finitudine e pochezza e costituiscono un dono prezioso, il ritorno presago di nuove esperienza ad un agire e sentire più mite e umile).

Quanti danni di tanti terremoti o disastri ambientali sono imputabili a mancata prevenzione e incuria del territorio, dell’organismo geografico, più che al fenomeno in sé, così inscritto nelle variabili imprevedibili della natura?

Qui non lo nego: sono uscito per terremoti e sciame sismico fuori di me. Ho esplorato un’agonia che mi poneva in lotta con me stesso e con ciò che accade all’improvviso. E viene colto – rapinosamente – e non si comprende nell’immediato. Forse s’intuisce. Ma l’intuito è facoltà persino indiscreta, come se rivelasse qualcosa che va approfondito e fosse nella sua discrezione che non esplicita, troppo luminoso, poco crepuscolare. Non è poco oscuro, non lo è abbastanza.

Almeno per certi caratteri tendenzialmente melanconici, che piuttosto che chiarità, volgono il loro cammino alla discesa. Là dove non ci si può nascondere: desiderio di rinascita. Mutevole e molteplice, sotto diversi aspetti.

Rinascita negli istanti, nella memoria, nella relazione, nella conservazione delle tracce con i legami che ci precedono. Legami, non vincoli, e di cui i frammenti costituiscono proprio il tessuto, la trama visibile, comprensiva di ciò che non poteva essere compreso, ma è stato colto).

Ci si sente desiderosi di essere annullati quando ci si sente annullati. Si sente la necessità del vuoto quando si diventa invasati, senza filtro o distacco, né attenzione possibile. O al contrario – ma è un paradosso complementare – attenti ad ogni dettagli, anche il più insignificante.

Occorre perciò alleggerire il campo, sgombrarlo da timori. Occorre mietere e raccogliere. Ed è un processo lento che non si sottrae al flusso che – nel frattempo ci espone ad ulteriore percepire e avvertire. Intuire e sedimentare. Altri frammenti, conferma, e disconferme. Cambiamenti da cogliere progressivamente, sentendoci all’interno di un flusso, un respiro, un pulsare, sentendoci vivi, anche durante e dopo l’atto della mietitura.

Raccogliere, affastellare, caricarsi di sé. Obliare QB, per poter ricordare diversamente.

Separare il grano dalla crusca. Riempire sacchi, ordinarli e trasportarli alla macina.

L’intera comunità ne beneficerà.

Munifici, cancelliamo la brutalità, e riscopriamo l’ironia e la gentilezza, sapendo che ha dei limiti, e per attenzione a sé, non può essere data per scontata. Anche la gentilezza può essere un virus contagioso, che ci perdona, perdona, ringrazia, e tacitamente resta riconoscente, annullando sterili cinismi e cattiverie involontarie, impulsive.

Annichiliamo ciò che ci importuna e impedisce. È un passaggio salutare.

Non nego di essermi perso nei mesi a cavallo del lockdown e con protratti strascichi in un patire (sentire) di cui non vado fiero, benché fossi fiero (feroce). Ferite ardue a rimarginarsi, non dovute a rimandi esterni, ma al concatenersi e sovrapporsi di eventi ed episodi inviluppati tra loro. Rifrazioni e riflettersi – o risuonare di vissuti simili e differenti. Contrasti, conflitti. La sensazione di non poter farmi carico delle singole scelte, passo passo agite e determinate. Avere un peso sul le spalle molto più grande di me. La sensazione di pericolo, e l’eco di una minaccia. Sono diventato pericolosamente aggressivo, si è accentuata la tendenza – di per sé transitoria – ad una distruttività rivolta all’esterno solo dopo aver replicato una distruttività verso di sé.

I Nirvana l’hanno espresso rabbiosamente, con ferino sound rockettaro. Un rigurgito di maladolescenza che invita ad una maggiore disponibilità, nel suo trasformarsi progressivamente in altro, senza concedere troppo ad evasioni idealistiche o troppo idealizzanti. Anch’esse tracce verosimili di impermanenze e baluginii mentali. Restano molti dubbi, le incertezze su quanto si colto e non ero disposto né potevo tollerare di comprendere, capire (letteralmente: contenere).

Dopo questa pandemia e in un’epoca dove passa sotto un brutto silenzio acritico l’economia di guerra, penso che le necessità di molti, siano convergenti al mio desiderio di stare insieme alle persone, di coglierne la loro differente personalità, senza fissarmi sulle idee.

Anche di queste restano frammenti, quasi immagini oniriche, che sublimano, si sedimentano e si trasformano. Diventano segni, frasi, testi. Racconti, oltre che racconti. Ma su questo mi profonderò diversamente. 

Lo dico non per rivelare o confidare chissà che, ma per motivare ancor di più la gratitudine verso ciò che m’ispira. Processo fecondo, fertile, di accettazione e generatività. E oltretutto, divergente rispetto all’andamento globale con le sue ingiustizie e guerre.

Un invito alla lentezza della comprensione, che lascia andare, e al tempo stesso alla continuità di un andare in direzione ostinata e contraria, senza lasciarci travolgere del clima storico e politico poco felice.

Ciascuno può fare la sua parte. E quando ci sentiamo rabbuiati e siamo poco inclini, va bene anche scatenarsi sulle note di smells like ten spirit, per mandare giù l’amarezza e scaricarla di brutto senza fare né farsi male. 


And I forget just why I taste, Oh yeah it makes me smiles,

I found it hard, it’s hard to find

O well whatever, Nevermind

 With the lights out, it’s less dangerous, Here we are now, entertain us

I feel stupid and contagious, Here we are now, entertain us

A Mulatto,

An Albino,

A Mosquito

My Libido,

A Denial

A Denial A Denial A Denial A Denial A Denial A Denial A Denial A Denial A Denial A Denial A Denial…

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Un diniego ostentato, come a ribadire: preferisco di no. Alla prossima.


Cronache Del Dopo Virus ritorna mercoledì 27 luglio


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