L’Orco Urbano

Alice non sapeva bene se stesse svegliandosi o se quel che viveva era un sogno o piuttosto un incubo dal quale voleva fuggire riuscendo a dormire in pace. L’isola di Alcatraz era sempre in grande disordine. Forse è per quel motivo che l’amava particolarmente. Da un film con Burt Lancaster aveva imparato il significato di Alcatraz: isola degli uccelli.

In effetti ve n’erano parecchi. Alice li teneva a debita distanza. Aveva imparato a riconoscere la loro voce. In qualche modo, a dispetto della fragile sensibilità che talvolta la portava a straparlare utilizzando con parole sconnesse e inopportune o impertinenti, non aveva perduto la speranza.

Non si faceva illusioni e accettava quella realtà per com’era: un mondo non perfetto.

Ogni essere ha la sua voce e io questa la conosco. Alice citò, leggermente trasfigurata, la battuta del Buono. Abbandonò il gatto e sorvegliata con sospetto da altri marinai (o erano cowboy o lupi di mare?) al soldo di Sentenza, si avviò alla ricerca di Tuco, il bruto.

No, quello era un altro film: fuga da Alcatraz, non l’uomo di Alcatraz. Occorre ricordare che Clint aveva imparato il mestiere di regista da Siegel. Due scarni sguardi sulla realtà, entrambi poco propensi a fare dei compromessi. L’unica differenza tra i due registi dallo stile poco appariscente, poteva sommariamente essere ricondotta ad una differenza ideologica: uno individualista conservatore, l’altro individualista liberal, diffidente del sistema per difesa e per evasione, appunto. Ma nessuno dei due era indifferente al far-west urbano ed entrambi implicati nella costruzione della trama interna allo stesso “sistema”. L’albero degli implicati, poteva essere un altro riferimento western.

Che tipo di infanzia hai avuto Alice? Breve… la battuta era del personaggio Eastwoodiano Frank. Il film ricostruisce fatti realmente accaduti, l’unica evasione riuscita – ma non si ha la certezza della sopravvivenza dei detenuti evasi.

Alice si voltò nel letto, inquieta, turbata, colta nella sua paura. Si ricordò del suo cognome, Pan: James Hillmann ha scritto un saggio memorabile sulla potenza che evocava questa potenza, onnipervasiva. Un concentrato post-junghiano, che a partire da un approccio filologico dispiega pagine colme di ribaltamenti progressivi. Alludere o intuire ciò che rendeva la follia un dispiegamento di forze in grado di invocare in se stessa una forma di guarigione.

Una relazione e concezione di stampo accademico che accoglie la follia per farne il principio della guarigione: parola quanto mai azzardata. Alice Pan osservò in sogno Hillmann come fosse un grande Orco caprino e capriccioso, deformato e reso gonfio dalla sua fervida immaginazione. Pazientò intuendo l’indole di chi cerca di portare acqua al suo mulino: uno psicologo ancora troppo immerso nella sua disciplina per dissociarsi dall’implicita concezione della follia intesa come malattia. Epperò: un ritorno alla classicità degna di nota. Un iniziale recupero di un linguaggio, e di una tessitura non soltanto simbolica. Un paesaggio oltre che passaggio non analitico quanto piuttosto filologico per trasformare dall’interno il punto di vista di una prassi di cura dichiaratamente non esatta, in riflessione culturale di maggior respiro.

Alice sbadigliò cercando di riaddormentarsi. L’incubo fastidioso stava lentamente svanendo. Forse s’era già svegliata, o forse stava ricominciando il sogno. Alcune pagine venivano riassunte e rievocate da alcuni epiteti dell’inno su Pan: una ghirlanda di nomi, una costellazione di caratteristiche, ingredienti di una ricerca da amalgamare con cura. Uno la colpì: Invasato.

Alice guardò l’orco che nel suo sogno ora si stava addormentando. L’orco delle fiabe – racconti magici, evocativi, ipnagogici è un personaggio di aspetto brutto, sporco e cattivo, ma porta un dono. Vaso, orcio, otre, vano: il vuoto. La sua crisi: un abisso che ha a che fare con l’horror vacui, la paura del vuoto, il baratro, la perdita o perdizione. Una tensione da cliffhanger.

Aggrappata con tutte la sua vitalità ad una delle scogliere dell’isola, Alice decise di allearsi con l’orco. Il grande omaccione, paradossalmente colmo di vuoto. Un vuoto a rendere, non a perdere, rise ironicamente che fece di quell’incubo una naturale predisposizione all’accoglienza e all’ascolto in modo da rendere l’isola più abitabile e gradevole. Alice Pan e l’Orco divennero i due porta bandiera di quel nuovo progetto, che chiamarono, che maliziosamente sfotteva certe mode ecologiche “l‘orco urbano…”

Una risorsa non solo per gli abitanti dell’isola. Ma per tutta San Francisco. Per tutta la California, ancora in cerca di un oriente in grado di guardare a sud come se stesse guardando verso nord.

Alice guardò dalla finestra. L’oceano indiano somigliava quanto mai all’oceano pacifico.

ENEA SOLINAS

Foto: pixabay.com – Laura Rissone

Attraverso Lo Specchio ritorna venerdì 17 maggio

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